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lunedì 16 aprile 2012

L'EMIRO DI SARDEGNA: Hamad bin Khalifa al-Thani



L'EMIRO DI SARDEGNA: Hamad bin Khalifa al-Thani



A Roma, in visita di stato, il 16 e 17 aprile. Lo sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, 60 anni, settimo emiro del Qatar, al potere dal giugno 1995 dopo avere deposto il padre Khalifa, e la seconda moglie, la favorita, la sceicca Mozah, 53 anni, saranno accolti con tutti gli onori dovuti al loro rango. Indosseranno abiti tradizionali e difficilmente potranno sfuggire al rigido protocollo. Non passeranno inosservati neanche ai più distratti perché tutti, d’ora in poi, dovranno fare i conti con loro che rappresentano una nuova potenza mondiale, sia energetico-finanziaria sia politica.

L’emiro fornisce il 10 per cento del gas consumato in Italia, diretto al terminale di rigassificazione di Rovigo (valore 1,85 miliardi di euro). E soprattutto è lui il nuovo padrone della Costa Smeralda Holding, il club esclusivo di ville, hotel a 5 stelle, terreni e campi da golf che sorge su uno dei tratti di mare più famosi al mondo: lo ha pagato quasi 700 milioni di euro, attraverso il fondo sovrano di investimenti del Qatar. A venderglielo è stato il suo amico e socio di affari Tom Barrack, a corto di finanziamenti per ricapitalizzare con altri 400 milioni di euro l’intero consorzio, che ha bisogno di rinnovarsi e di rilanciarsi.

La recessione globale non ha nemmeno sfiorato l’emirato, che continua ad avere un’impetuosa crescita del prodotto interno lordo (oltre il 17 per cento nel 2011) ed è anche il più ricco al mondo grazie all’aumento della produzione del gas naturale liquefatto e ai progetti di investimenti in infrastrutture per oltre 100 miliardi di dollari, in vista di una serie di eventi sportivi di sicuro richiamo, come i Campionati mondiali di calcio del 2022, quelli di palla a mano del 2015 e la candidatura alle Olimpiadi del 2020.

I movimenti di protesta del mondo arabo non si sono avvertiti a Doha, la capitale che vuole togliere il primato dei grattacieli a Dubai, grazie al riconosciuto paternalismo pragmatico della famiglia al- Thani, che ha aumentato i salari e i benefit assistenziali per prevenire qualsiasi focolaio di tensione.

L’emiro, che ha una fortuna personale di 2,4 miliardi di dollari, dedica buona parte della sua giornata a incontrare qualsiasi cittadino che abbia da esporgli una lamentela, la richiesta di soldi per l’università dei figli, il mutuo straordinario per comprare una casa agli eredi. La sceicca Mozah completa l’opera con la sua Qatar foundation (sponsor fra l’altro del Barcellona calcio) e la Città dell’educazione, dove ha attratto le migliori università americane.

Il terzo membro del triumvirato, lo sceicco Hamad bin Jassim al-Thani, lontano cugino dell’emiro e primo ministro nonché ministro degli Esteri, si dedica allo sviluppo sociale e agli investimenti internazionali, attraverso la Qatar investment authority, il fondo sovrano di 75 miliardi di dollari che ha investito nel colosso automobilistico Volkswagen, nella banca inglese Barclays, nei grandi magazzini Harrods, a Londra, nella casa editrice Lagardère e nella squadra di calcio del Paris Saint-Germain.

In politica estera l’emiro è stato così abile da trasformare la primavera araba nella rampa di lancio della sua proiezione diplomatica. Grazie all’emittente all-news Al-Jazeera, da lui finanziata, che è riuscita a far da motore alla rabbia popolare in Egitto, in Tunisia, in Libia e, più recentemente, in Siria, ha usato tutti gli strumenti del soft power, della finanza, della diplomazia e della potenza paramilitare dei servizi segreti e delle truppe speciali per riempire il vuoto strategico e per accreditarsi come il monarca riformista che ha cacciato i presidenti autocrati (Hosni Mubarak in Egitto e Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia), i dittatori (come Muammar Gheddafi) e ora anche i leader più sanguinari, come Bashar al-Assad in Siria. Alla Casa Bianca lo chiamano il “Kissinger del Medio Oriente”, per quel pragmatismo dalle cosiddette “ambiguità costruttive” che è la sua caratteristica principale. Con enorme spregiudicatezza l’emiro ha offerto da anni e gratuitamente due basi militari al comando centrale americano (Al-Udeid e Camp As-Saliyeh, che ospitano 40 mila soldati Usa e hanno giocato un ruolo chiave nella campagna irachena del 2003 e in quella afghana).

Nello stesso tempo, a Doha, basta entrare negli hotel più rinomati, come il Four Seasons, il Ritz e lo Sheraton, per incontrare, in un’atmosfera da film Casablanca, delegazioni di capiclan della nuova Libia, dissidenti siriani, tribù yemenite, esponenti di Hezbollah e leader di Hamas (come Khaled Mashaal, che si è trasferito in Qatar dopo avere abbandonato in fretta e furia Damasco), addirittura talebani doc, che hanno avuto l’autorizzazione ad aprire un ufficio per le trattative con il governo ufficiale di Hamid Karzai.

I diplomatici qatarini hanno imposto le loro mediazioni in Africa orientale con l’obiettivo di stabilizzare un’area cruciale per la propria sicurezza e intensificare la presenza economica nell’intera regione. Il successo più rilevante è stato l’accordo fra il governo sudanese e il movimento Liberazione e giustizia per la pace nel Darfur. Anche i rapporti con Israele sono intensi nonostante la chiusura dell’ufficio commerciale dello stato ebraico a Doha, decisa nel 2009, dopo l’invasione di Gaza.

Dorme poco l’emiro, e veglia molto sui movimenti islamisti, convinto com’è che i partiti religiosi e conservatori filo Islam alla fin fine risulteranno i veri vincitori delle rivoluzioni arabe. Con loro, sostiene nei colloqui con i diplomatici americani ed europei, bisognerà fare i conti perché rappresentano una fetta significativa dell’opinione pubblica nel mondo arabo. “Meglio coinvolgerli nel processo politico che marginalizzarli” ripete.
Agli occhi dell’emiro le luci della ribalta sul palcoscenico internazionale sono essenziali per la sopravvivenza sociale e politica del Qatar come stato indipendente nel Golfo Persico, stretto fra i due giganti Arabia Saudita e Iran. Ecco perché il “grande mediatore” continua la sua campagna di consenso internazionale grazie alle sue riserve di idrocarburi (le terze al mondo dopo Russia e Iran) e agli investimenti diversificati.

Mancava l’Italia nel puzzle qatarino. L’emiro ce l’ha messa tutta per accreditarsi così come ha fatto in Gran Bretagna e in Francia: ha finanziato un gasdotto da 1,2 miliardi di euro nel Mar Adriatico assieme alla Edison, ha acquistato l’hotel Gallia di Milano e ha tentato di mettere le mani sul petrolchimico dell’Eni, ha cercato di comprare una quota dell’Enel Green Power e ha puntato diretto su Venezia per aiutare la città tanto amata dalla moglie. Ma ogni volta è stato deluso «da un certo tipo di resistenza del mondo economico e delle lobby politiche che sono difficili da penetrare e non aperte alla competizione, per non parlare dell’oneroso sistema fiscale e dei grovigli della burocrazia» si è lamentato recentemente il quotidiano locale The Peninsula, riflettendo le frustrazioni dell’élite imprenditoriale.

Ora ci prova direttamente l’emiro a infrangere tutte le barriere e a rilanciare la partnership italo-qatarina. In fin dei conti il parco industriale italiano nel Qatar è già ultimato e aspetta solo lo sbarco delle imprese italiane per poter essere inaugurato. Quanto agli affari in Italia, beh, non c’è che da scegliere.
(Pino Buongiorno)

Tratto da Panorama.it del 16 Aprile 2012

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